Sono Monchi e Di Francesco i protagonisti della settimana. Dal mercato alla discontinuità: tutti i motivi del fallimento dei due ex-gladiatori della Roma La prima settimana di marzo del 2019 può essere ricordata, a Roma, come quella del “pollex infestum” di James Pallotta e di una larga parte del popolo giallorosso ad Eusebio Di Francesco e Ramón Rodríguez Verdejo, meglio conosciuto come Monchi. Dopo otto mesi di referti altalenanti sotto l’aspetto dei risultati, le pesanti sconfitte incassate in campionato ad opera della Lazio di Simone Inzaghi e, quattro giorni dopo, in Champions per via del Porto di Sergio Conceição, l’allenatore ex-Sassuolo è stato costretto ad interrompere drasticamente il rapporto con il club capitolino, mentre poche ore più tardi il dirigente spagnolo ha optato per la risoluzione consensuale del proprio contratto assieme alla società italo-americana. Diverse ma inevitabilmente incrociate sono le motivazioni del terremoto giallorosso e della successiva rivoluzione voluta e operata da Pallotta. Di Francesco, scelto per il calcio offensivo proposto a Reggio Emilia e perché uomo di spessore e grande conoscitore di una delle piazze più calde d’Italia - in quanto membro della Roma conquistatrice dell’ultimo scudetto del 2001 -, è riuscito a conquistare una semifinale di Champions nel corso della sua prima stagione da tecnico della Lupa, perdendo contro il Liverpool di Kloop la possibilità di disputare una finale stellare al cospetto dei pluripremiati campeones del Real Madrid. Volgendo a ritroso la pellicola della massima edizione del calcio europeo dell’annata 2017/2018, a brillare davanti agli occhi del mondo giallorosso e, probabilmente, di tutta l’Italia è la grandissima prestazione con cui la Roma di Di Francesco si è sbarazzata di una corazzata di primissimo livello, nonché una delle candidate alla vittoria finale della coppa dalle grandi orecchie: il Barcellona di Ernesto Valverde. Il 10 aprile 2018, i gol di Dzeko, De Rossi e Manolas facevano esplodere un Olimpico gremito di supporter in visibilio davanti ai propri beniamini i quali, grazie anche ad un’intuizione tattica di Di Francesco - un 3-5-2 inedito e per molti troppo azzardato - sgretolavano senza alcuna pietà l’eccessiva sicurezza blaugrana scacciandola dalla competizione più ambita d’Europa. La bellezza del calore di una piazza come quella romanista, però, costituisce anche la prima debolezza della stessa: in pochi avrebbero accettato, da quel giorno in avanti, che l’approdo in semifinale di Champions del 2018 sarebbe stato il punto più alto della contemporanea storia calcistica capitolina. Già, perché la stagione in corso, la seconda dell’era Di Francesco, ha senza dubbio tradito le aspettative dei più a causa di una repentina involuzione della rosa e delle sue prestazioni.I pareggi contro Atalanta, Chievo e Cagliari (2-2 dei sardi in inferiorità numerica di due uomini) e le pesanti sconfitte contro Udinese, Spal, Bologna, Lazio e Fiorentina (7-1 al Franchi in Coppa Italia) hanno mostrato tutta la fragilità difensiva di una Roma che, tuttavia, in Champions, è apparsa ancora una volta solida e all’altezza delle difficoltà, almeno sino alla cruciale sfida di ritorno dei quarti ad Oporto contro il Porto. Al do Dragão, il timbro su rigore di De Rossi in occasione del momentaneo 1-1 romanista si è rivelato una beffarda illusione di gloria per un team che, al 120’, si è visto costretto a dire addio alla Champions alla luce dell’impietoso 3-1 esibito in favore dei padroni di casa sul tabellone e che, il giorno dopo, ha dovuto salutare il proprio condottiero numero uno. La domanda da porsi è, col senno di poi, la seguente: Di Francesco sarebbe stato esonerato se l’arbitro Cakir avesse decretato il rigore per l’intervento di Marega su Schick agli sgoccioli dei tempi supplementari? Ammesso ovviamente, che la trasformazione dell’eventuale penalty avesse concesso alla Roma di raggiungere la semifinale di Champions anche nel 2019. La risposta è negativa, ma l’ultimatum dato all’allenatore pescarese dalla società a poche ore dall’inizio del quarto di ritorno col Porto fa ben capire i malumori ormai consolidati in un ambiente stufo delle continue rincorse della rosa a seguito delle incessanti amnesie e delle conseguenti critiche incassate negli ultimi otto mesi. E Monchi in tutto questo che responsabilità ha avuto? A salvaguardia dei propri meriti, Eusebio Di Francesco ha, probabilmente, la certezza di un “tradimento” da parte di chi forse lo ha amato di più. L’ex ds della Roma, infatti, dopo una stagione positiva come quella del 2017/2018, è divenuto il primo responsabile dell’involuzione della rosa: gli acquisti di Marcano, Cristante, Nzonzi, Fuzato, Bianda, Mirante, Olsen, Kluivert, Coric e Pastore non hanno portato ai risultati sperati, come anche quelli del 2017 di Schick, Defrel, Gonalons, Vainqueur e Castan . Opposto, invece, è il caso di Nicolò Zaniolo, l’unico neo arrivato capace di brillare dopo un mercato fallimentare e piuttosto esoso dal punto di vista economico. Il giovane italiano si affianca ad Under nella pagina dei migliori prospetti su cui investire. Dall’altra parte, nell’ultimo biennio, cessioni rilevanti come quelle di Salah, Alisson, Strootman e Nainggolan (oltre a Rudiger, Paredes, Gerson) non sono state viste di buon occhio dalla maggior parte dei tifosi, né tantomeno avvalorate con dei sostituti di pari o maggiore livello. Con 264 milioni di euro - soldi spesi in totale nel biennio a Roma da Monchi per il mercato in entrata - probabilmente si sarebbe potuto fare di meglio e consegnare a Di Francesco una rosa più attrezzata e competitiva. Vero è che nella stragrande maggioranza dei casi con i "se" e con i "ma" non si va da nessuna parte. Altrettanto verosimile sarebbe affermare, tuttavia, che talvolta determinate storie d'amore, qualora fossero condite dalle due congiunzioni suddette, sarebbero destinate a durare molto più a lungo.
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